Che donna è la Salomè d’Oscar Wilde?
Un’isterica.
Che donna è l’Elettra di Ugo von Hofmannsthal?
Un’isterica.
Si comprende quindi che questa dopo quella abbia sorriso all’anima musicale di Riccardo Strauss. Il quale è tanto penetrato, e così squisitamente, colla prima opera sua nella psicopatia femminile, da sentirsi spinto dal suo stesso successo – ancora prima artistico che scenico – a questa anatomia della donna; anatomia che non può dirsi spirituale soltanto, poichè è più possibile oggi, e possibile specialmente in casi e per esseri eccezionali, distinguere ancora fisiologia da psicologia, quindi la patologia dell’una e dell’altra? Ecco che Salomè è condotta alla necrofilia dalla tendenza innata alla sensualità sadica e dall’ambiente, saturo di sangue come di voluttà; ed ecco che Elettra è condotta alla necrofilia dall’amor figliale e dall’odio figliale, questo non men potente e prepotente di quello.
L’Elettra del poeta tedesco almeno: la quale porta una nota ancora nuova nella raffigurazione, già così replicatamente delineata, attraverso a Sofocle e ad Euripide, da Eschilo ad Alfieri.
Nè la raffigurazione d’Elettra sola; quella di Clitennestra insieme, poichè le due figure sono, non soltanto in sè stesse, ma l’una nell’altra e per l’altra.
Dalle persone tragiche di Eschilo a quelle di Euripide non corre più di mezzo secolo. Eppure, quanto si trasmutano! Nè appare strano pensando che men di un secolo era corso a ritroso dalle opere di Euripide, complete e perfette, al rudimentale carro di Tespi. Ed a rovescio camminano le due persone maggiori in Euripide ed in Eschilo. Questi ci da, anzitutto, nell’Agamennone la grande Clitennestra, la Clitennestra pienamente, sublimemente delittuosa; una deliziosa donna ci dà Euripide con Clitennestra nell’Ifigenia in Aulide: massaia, sposa, madre perfetta, esempio d’ogni più gentile, più cara virtù. E veramente, pria della figlia, pria delle figlie, è la madre che oggi ancora, anzi oggi più che mai, incatena, qual che essa appaia, il nostro interesse. Pallida è invece in Eschilo Elettra, ed ecco ella si colorisce delittuosamente in Sofocle prima, poi in Euripide, per giungere oggi, col poeta moderno, al grando massimo dell’orrroe [sic].
La leggenda, che si è fatta storia nell’anima umana attraverso i secoli e le genti, è stata per Clitennestra severa. E se così la sua consacrazione è partita da Eschilo, ciò non deve suscitare sorpresa. Per Eschilo, la scena era l’esercizio di un ministero religioso, e come non doveva egli porre sovra tutte la figura dell’eroe, del semidio, allora che erano ancor così intimi i legami anche di sangue fra gli umani ed i numi? Magnifico è in lui Agamennone, modesto non men che grande, marito non men che padre amoroso. Ma in realtà – se di realtà può parlarsi – non era egli, secondo la stessa leggenda, diverso, diverso assai? Concediamogli Cassandra, così bella, così interessante, alla attraenza fisica della quale aggiungeva provocazione il prestigio profetico; ma, prima ancora del sacrificio d’Ifigenia, non si era egli mostrato un ben tristo sire quando aveva tolto a forza Clitennestra al suo primo marito, uccidendolo, e strappandole pur dalla mammella un tenero infante? E, padre d’Ifigenia, non si era mostrato degno figlio di Atreo e peggiore di lui? Atreo dava in pasto a Tieste i figli di Tieste: Agamennone [14] dà la figlia propria in pasto alla propria ambizione, alla propria vanità; e di fronte a lui si riabilita lo stesso Menelao, il quale sa rinfacciarglielo con parole che a ventitrè secoli di distanza assomigliano Agamennone aspirante al supremo comando dei greci ad un odierno candidato alla deputazione parlamentare*, mentre poi sa commoversi in tempo alla divina grazia d’Ifigenia, immolante gloriosa sè stessa alla patria.
Soltanto il concetto della procreazione nei greci così diverso dal nostro, alleato alla importanza suprema che il maschio aveva nella vita vissuta di fronte alla femmina, spiega, se non giustifica, la diversa considerazione che nello spirito ellenico ebbero il delitto di Clitennestra e quelli di Agamennone. Già in Eschilo, Apollo, rampognato dalle Eumenidi come istigatore del matricidio di Oreste così:
Far precetto ad Oreste, che la morte
Vendicando del padre, in conto alcuno
Non tenesse la madre?
risponde:
Vale il morir di generoso eroe,
D’uom che onorato avean di scettro i numi
E una donna l’uccise, …
e ancora:
Dirò ragione, e, come vera, attendi.
Quella che madre appellasi, del figlio
Non è, non è generatrice: dessa
E’ del feto nutrice. E’ l’uom soltanto
Generator; serba la donna a lui,
Come ad ospite suo, l’accolto germe,
Se un Iddio nol diserta.
Tanto è vero, aggiunge, che possono esservi figli di padre, che non abbiano madre: esempio, Minerva.
Nè al tempo di Euripide il concetto era mutato, se Oreste, a giustificare con Tindaro il matricidio, dice:
Mi partorì come il terren che il seme
Dal cultor ricevea. Mai senza il padre
Esser puote alcun figlio; ond’io credetti
Più mio dover il favorir le parti
Dell’autor de’ miei dì, più che di quella
Ond’io trassi alimento.
E Minerva stessa, citata da Apollo, assume la responsabilità del principio, di fronte alle Eumenidi ed all’avvenire, quando, istituito l’Areopago, a decidere il processo in favore del matricida:
Ed io questo mio voto a pro d’Oreste
Aggiungerò. Madre io non ebbi …
e tutta
Del padre io son; nè più stimar la morte
Potrei di donna che il marito uccise,
Marito insieme e suo signor;
e vota di fatti, pur senza necessità, se è vero ciò che il Dioscoro dice ad Oreste nell’Elettra di Euripide:
La parità …
Onde ai venturi si porrà la legge
Che sempre vinca il reo, se i voti uguali
Saranno.
(Vedete un po’ quanti secoli conta la nobilità dei giurati!)
Infine, Ifigenia in Tauride, Ifigenia, nella quale la barbarie del sacerdozio e dei barbari non ha spento la natural gentilezza dei sensi, quando si mostra più premurosa della salvezza del fratello che della sua:
Senza l’imago (di Diana) son perduta; e intanto
Tu, provvedendo a te medesmo, in salvo
Farai ritorno. Or non per questo io fuggo
Da tal per iglio. No, se pur ne debba
Morir, purch’io ti salvi! Oh, mai! Chè l’uomo
Colto da morte alla famiglia è caro;
Ma il lutto per le donne è lieve cosa.
Onde, tanto più, il lutto per l’eroe trucidato dalla moglie, pel padre trucidato dalla madre, qual ch’egli fosse, e qualunque foss’ella.
Pur, che magnifica donna Clitennestra nella prima tragedia eschiliana della trilogia! Tagliata in un diamante nero ella appare, perfetta nella dissimulazione, nel coraggio, nella crudeltà, nell’amore, luminosa sempre! Nulla ha mai più creato di più grande la tragedia; nè mai l’inganno si vestì di lusinga più suaditrice, nè mai l’impudenza si mostrò più in così sovrano orgoglio, e maggior coscienza mostrò la vendetta che nelle sue parole; nè mai donna mostrossi veramente più di lei degna di regnare, quando, dopo essersi inebbriata nel racconto del[15]l’eccidio maritale, alle rampogne del coro, oppone:
Sacramento solenne. – A te lo giuro
Per la giustizia che facea vendetta
D’Ifigenia, per Ate, e per l’Erinni,
A cui l’empio immolai. Non mai, lo spero,
Io nel tempio entrerò della paura
Infin che Egisto accenderà la fiamma
Nei miei Penati, e mi sarà fedele
E benigno qual pria. Non è per noi
Picciolo scudo a sicurezza Egisto.
Spento qui giace l’infedel consorte,
Delizia in Ilio alle Criseidi, e giace
Schiava vaticinante i suoi dolori,
Quella che seco ebbe comune il letto,
La profetessa, che fedel compagna
Giunse da Troia veleggiando ad Argo,
E coll’amante ha della nave attrito
Il duro legno ove con lui si giacque.
Che d’ambo il fallo rimanesse inulto
Io non soffrii: pena ad Atride è questa.
E come il cigno che a morir vicino
Modula flebilmente il canto estremo,
La druda sua spenta cadeva, e a quelle
Del talamo delizie, ov’io riposo,
Accumulava una dolcezza arcana.
Poi l’arte all’amante insegna di regnare, concludendo con sovrano disprezzo la tragedia:
Questi vani ladrati, e dalla reggia
Dove s’impera, ordinerem lo Stato.
Ma ecco che nelle Coefore Clitennestra va sminuendo sino a cessar d’essere persona tragica, dinanzi al falso annuncio che Oreste è morto. Eppure ella l’ha sognato nel sonno terribilmente! Non si ritrova, non si riconosce, che quando ode la morte di Egisto, e chiede una scure, una omicida scure, quella stessa forse con cui abbattè Agamennone:
Rimarrem noi.
Ma vede Oreste, e si fa miseranda implorando vita da lui, tentando nel morire di giustificare l’uxoricidio, e non riprende sè stessa, la sua misura, la sua orribile grandezza che, fatta ombra, dinanzi alle Eumenidi addormentate e rutanti, [16] che sprona, spinge al tormento, gridando e reclamando contro il figlio vendetta.
Degna di lei la ritroveremo nell’odierno nuovo poeta.
Intanto, figura grandiosa ancora, eppur minore che nella prima rappresentazione eschiliana, noi la vediamo in Sofocle. Noi la vediamo avversa ad Elettra, tollerante verso la minor figlia Crisotemide, perchè tollerante è questa del delitto e dell’adulterio materno; la udiamo latrare contro Oreste vivo e lontano; contro Elettra essa si erge ancora proterva e superba, ancora accusatrice di Agamennone, spinta dal sogno all’odio non men che al terrore; ma, all’annuncio della morte d’Oreste:
Fausto o infelice? utile è sì, ma duolmi
Che vita io serbi col morir dei figli.
E’ gran cosa esser madre; odio ai suoi figli
Portar non può chi male ancor ne tragge.
E poichè praticamente conclude:
Ogni minaccia, avrem riposo e pace,
dobbiamo crederla nella battaglia dell’anima sincera, sicchè par che Elettra – l’inesorabile – la calunni, dicendo poscia di lei che, all’udir la morte del figlio,
Poi, in Euripide, tanto perfida non appare, se così facile riesce ad Elettra trarla all’agguato, pregandola di voler recarsi ad assisterla nel simulato parto. Sino a che, eccola in Alfieri trasformata, insieme ad Elettra, in una infelice, irresponsabile d’ogni delitto, vittima soltanto della suggestione amorosa che la presenza fisica di Egisto esercita sopra i suoi sensi.
Ed è perciò che la figura alfieriana di Clientennestra può meritare l’attenzione della critica moderna, più, assai più di quella d’Oreste. Alfieri, che nel Saul aveva saputo renderci con mirabile intuito scientifico il fenomeno della lipemania, c’interessa, in ambo le sue tragedie orestiane, assai più per quello studio dell’indole femminile che per le celebri furie, il cui lungo successo teatrale non possiamo oggi spiegarci che grazie alla prestanza fisica, alla virtù vocale ed al sovrano accento tragico di qualche nostro grande attore, come Tomaso Salvini, che anche nella più inoltrata maturità degli anni sapeva tagliarvisi una giovanil parte vincitrice, malgrado le licenze, allora inavvertite dal pubbtico [sic], del costume e della maschera. Tenero si mostra qui Alfieri, contro la fama di durezza che gli è stata fatta a torto anche per la forma del suo verso, tenero sino alla mollezza, non tanto quando Clitennestra dice di Elettra ad Egisto
ed Elettra, infatti, di rimando ad Oreste
e ne ha pietà; non tanto quando, all’annunzio della morte di Oreste, si sente madre così dolorante, ma prima, quando chiama la figlia a confidente del suo adultero amore, e lo confessa apertamente, e seco tenta di resistergli, e si giustifica del cedergli. Si direbbe inverosimile, se oggi appunto un mistero giudiziario che si sta chiarendo in Francia mentre io scrivo – quello della signora Steinheil, accusata di complicità nell’assassinio del marito e della madre, e scongiurata dalla figlia, conscia del vero, a dire il vero – non stesse ad attestare che natura umana non muta col succedersi dei tempi e col variare dei luoghi, e che amore può sempre contendere allo spirito religioso il triste vanto d’essere stato provocator di delitti, seppure è vero che più dello spirito religioso è fonte delle gioie maggiori alla altrimenti scolorita esistenza umana.
Ma ecco che, se con la creazione alfieriana ci siamo spiritualmente avvicinati al nostro tempo assai più che il nostro tempo non sia vicino a quello d’Alfieri, ecco che coll’odierno poeta noi risaliamo il corso dei secoli, ritroviamo nella Clitennestra dell’Hofmannsthal la prima Clitennestra eschiliana, quella magnifica superba rea dell’Agamennone, e la vediamo soltanto fisicamente invecchiata.
Fenomeno naturale questo, che l’arte dei greci o non concepiva, o non voleva rilevare. Indarno corre il tempo per le sue figure, anche umane, come se dotate di giovinezza immortale al par degli Dei. Non era più giovane d’anni Elena quando, apparendo sulle porte Scee, si fa perdonare con lo spettacolo della sua bellezza dai venerandi saggi di Troja le già atroci sventure e la imminente ruina; nè minore resistenza ha opposto al tempo nei tragici greci la sua non meno fatale sorella, dal suo primo apparire, moglie al secondo consorte, madre a figli del secondo suo letto, a quando, giunta alla morte cruenta, altri ne ha partoriti – o ventre troppo fecondo! – al suo terzo marito. La sua fisica gioventù è invece trascorsa quando il poeta odierno ce la fa apparire nel vano dell’ampia finestra, figura quasi ieratica, e tanto quanto bizantina. Invecchiata ell’è fisicamente, e stanca, affaticata dalla cura diuturna e notturna dell’animo vigile contro il pericolo previsto ed ignoto, ma imperterrita sempre e grandeggiante. Ella sogna, e quante volte il sogno non fu presentimento, fratello all’allora non men d’adesso frequente telepatia? Sogna e dice
Non è per amore, è per coscienza della sua grandezza, ch’ella ha tollerato sin qui l’intollerabile Elettra, ed è per coscienza della sua grandezza che ad Elettra essa si volge, respingendo le maligne suggestioni delle schiave, dal labbro delle quali non esce
Bene il rimorso la punge, la ferisce, le penetra le viscere attraverso tutte le carni; ma ella non vuol riconoscerlo. Solo vuol sottrarsi alla sofferenza. Epperò, degna rivolgersi alla figlia istessa. Ed è la sua una specie nuovissima di filosofia della vita e del delitto.
[17]Imagine diversa ma non minore di lady Macbeth, è il soffio di Shakespeare che passa dinanzi a lei, già comparsa agli occhi di Shakespeare. Vaneggia forse, anche desta? Sembra; pure, ella sente sempre di sè così alteramente, che, anche volgendosi per soccorso alla intollerabile figlia, esige, non prega; e sangue! sangue! sangue! si appresta a far scorrere per aver refrigerio, sia pure – che è la vita altrui per lei?! – umano sangue, sangue di donna o d’uomo. Non le fu lieve già il sangue dell’uomo grande, Agamennone marito e re? Bene per un istante ella si perde a filosofeggiare germanicamente – o non indarno tedesco poeta! – quando, niuna cosa dicendo irrevocabile, vede trasformarsi gli esseri e le azioni degli esseri; ma subito la grandezza ellenica e shakesperiana ancora l’investe, rievocando il delitto e la istantanea tacita intesa col drudo, intesa di sguardi, ch’essa rivede – sguardi mortali – insieme a quello del morente, che si cangia, lento e spaventoso.
Certo, ell’è in quel punto dell’anima, che, se anche non giungesse Oreste a trucidarla, affonderebbe, così, da sè, nella morte o nella follia. Ora ella imagina di riveder vivo il marito e di parlargli amicamente del suo delitto, or si ribella all’ossessione del sogno ed alla fisica debolezza, ora inorridisce alle atroci imagini della sua fine imminente, che Elettra inesorabile le evoca e invoca; ma subito si riprende all’annuncio della morte d’Oreste, gioisce tremenda, ringiovanisce persino, non si degna di pronunciare una sola parola. Due sole grida, poi, sotto il ferro del figlio. Ella è morta prima d’impicciolire.
Parte breve ed immensa. Or quanto più grande di Erodiade deve farla lo Strauss! Quanto più grande anche per Clitennestra deve questa Elettra sua esser di Salomè! Già par d’udirla, già par di sentire e di vedere l’onda sonora svolgersi, rincorrersi, riprendersi, spezzarsi, diffondersi or piena e sclamante, ora insinuante e sottile, con quelle combinazioni armoniche, quelle spezzature, quei collegamenti, che hanno dato già alla prima sua opera un così alto e inatteso carattere di novità: novità tanto legittima, e tanto inscientemente attesa dal pubblico universale, come procedimento inevitabile della musica scenica, che il trionfo ne è stato immediato e universale. La musa morbosa, indagatrice, che ha già saputo penetrare le più intime fibre del fenomeno femminile in una sola forma di voluttà delittuosa, ha, dinanzi a questa figura tragica, modo di vestirla musicalmente di suoni che dieno nuovo valore alla lettera delle parole, ai moti dell’animo, alle sensazioni del corpo, fondendo, come i diversi coefficienti dell’arte, i vari elementi dell’essere. Sì, sin d’ora, scesa da Eschilo al nuovo poeta, par sin d’ora d’udire la Clitennestra di Strauss.
Nè impossibile riesce il pensare, il sentire che cosa egli ha potuto fare di Crisotemide, più bella nell’Hofmannsthal che in Sofocle, figura squisita come l’Ifigenia in Aulide di Euripide, con la vigoria in più. Ma sarà questo per lo Strauss un compito nuovo, e non facile, poichè questa donna è la donna giovane, sana, aspirante alle più normali e legittime funzioni della vita, figlia non immemore dell’ucciso padre, ma sposa e madre nel desiderio, nel desiderio di un giovane e forte marito, e di figli non men belli e non men forti; figura umana resa con artistico magistero, non solo per sè stessa, ma come contrasto a quella di Elettra: di Elettra, che è maggiore di Oreste.
Il quale è alla sua volta, qui, maggiore che in Eschilo. Come il poeta eroico fra tutti ha potuto presentarci nelle Coefore un Oreste che invoca a Pilade consiglio pel matricidio, posto com’è fra l’ingiunzione sanguinaria d’Apollo e il rispetto figliale, e persuade poi con ragionari la madre alla morte? Oreste non ritrova qui la [18] sua vera misura che compiuto il delitto, volgendosi al Coro con parole degne di quelle con cui già Clitennestra si è giustificata del delitto suo.
Con più sottile strumento poetico lo inciderà Euripide, mentre indaga l’animo della sorella, ed Euripide è stato certo letto più di una volta dal poeta novo. Il quale ha segnato questa figura con pochi tratti, ma magistrali e decisivi. Men che in una frase del giovanetto, esulano qui gli Dei, come ne è esulato quell’infelice Pilade, che passò al futuro, imagine vivente della amicizia, più bello che non l’abbian reso tutti i poeti che lo fecero tacere come Eschilo, o parlare come Alfieri. E facile riuscirà allo Strauss trovare gli accenti con cui descrivere la figura del matricida, conscio, cosciente, volente, nel cuor del quale traduce però un istante di tenerezza figliale, la brama sentimentale di sapere di colei d’onde era uscito, che i suoi occhi non ricordavano, e del cui amore è in lui sottinteso e comprensibile il desiderio.
E facile gli riuscirà rendere il garrire delle serve e dei servi, e quella nota eccessiva di realismo che in costoro il poeta ha accentuato, ed anche le persone di quel Mentore e di quel vecchio schiavo nei quali il poeta ha diviso la figura delle tragedie antiche. E tutte, è a credere, riusciranno al musicista più significanti e più vere di quelle di Erode e dello stesso Iokanaan. Compreso Egisto; Egisto, vero protagonista delle tragedie alfieriane, non indegno protagonista, che nel tedesco poeta non men che nell’italiano appar già – come essere doveva – stanco di Clitennestra, e con tanto più brevi accenti dice ugualmente l’animo suo verso i figli di lei.
Rimane Elettra, qui giunta ora, attraverso i secoli, al grado massimo dell’orrore.
Pur devota del padre, e inconsolabile, e irriducibile, quanto essa è nelle Coefore lungi dal matricidio!
Invoca il Coro:
Ed ella:
poi
Fa’ che Oreste qui torni; e a me (deh, m’odi!)
Assai più della madre a me pudico
Sempre il cor serba, e assai più pia la mano.
Bene, riconosciuto ch’ella ha Oreste, s’infiamma all’ira di lui, e invoca anch’essa il
E d’una estinta moglie;
e rivede la scena della strage paterna dalla madre compiuta: pur, non pensa d’ucciderla essa; al più, serba a sè stessa l’uccisione di Egisto; eccita Oreste:
L’animo hai tu, tenta la sorte ed opra!
ma nel momento della catastrofe ella è scomparsa: il poeta non ha osato farla più nè vedere, nè udire. Nè più riapparirà.
L’ha osato Sofocle, e nell’Elettra sua vediamo il germe dell’Elettra nova; ma ell’è ancora a difendere il padre dalle accuse materne; se cerca suggestionare Crisotemide al sangue, è il sangue d’Egisto che essa le chiede; di Clitennestra dice bensì ad Oreste:
Ma in nulla è madre,
pur non lo spinge ad ucciderla, e solo quando ne sente il grido mortale s’inebbria e grida:
e chiede alfine:
Ma quanto la sua ferocia è ancor lungi da quella d’Elettra nova!
E ancor n’è lungi in Euripide, ove pure, ad Oreste, ancora a lei non svelato e chiedente:
Oseresti svenar?
risponde pronta:
Onde il padre morì.
Anela a farsi essa esecutrice:
Si prefigge:
Sarà mia cura,
e ad Oreste dubbioso:
oppone:
e, riuscitole l’agguato da lei stessa ordito, uccide.
[19]Ma poi, pentita ell’è, e sente il bisogno di giustificarsi di fronte a sè stessa, pensando:
La pena che pagasti al genitore.
Or, qui, nell’Elettra nova, più nulla debolezza umana: l’orrore massimo dalla prima parola all’ultimo gesto; ma quanta bellezza in questo orrore! E’ maniaca? Sia. E’ condotta alla manìa dall’amore figliale, dall’odio figliale, dalla troppo protratta virginità, dalla sterilità involontaria? Sia; ma è follia così superba, che ella appare furia di Agamennone, Eumenide più alta e più nobile di quelle che Eschilo ha fatto vendicatrici di Clitennestra.
Bellissima è sempre nell’orrore; ma ineffabilmente bella in tre momenti: nel lungo e terribile momento suo con la madre; nell’intenso e adorabile momento con la sorella; in quello col fratello, quando ella torna alfine, per amore di lui, fuggevolmente, un essere, un cuore umano. Amleto ella è alle sue prime parole, e Amleto non trova parole ed accenti così terribilmente e sottilmente abili con la Regina, come questa Elettra con Clitennestra in quella scena infinita, che potrebbe dirsi la scena del giudizio insieme e del castigo; nè mai seduzione e suggestione furono più carezzevoli, più insinuanti, più imperiose di quelle che nel momento con Crisotemide questa Elettra sa esprimere, superna scena in cui la complessa anima femminile si sdoppia in quelle due creature così diverse e uscite pure dallo stesso viscere per virtù dello stesso seme. Non un’imagine, non una parola che non sieno degne del genio.
Insuperabil momento; pure, eguagliato dall’ultimo: in cui, dinanzi al ritrovato fratello, la donna si libera, sia pur fuggevolmente, dalla furia, e lamenta per l’odio suo e d’altrui abbandonata ogni più dolce cosa, persino la pudicizia. Chè, invero, la pudicizia non è stata primamente cristiana virtù. Essa trionfa con Euripide in Ifigenia, come il matronale ritegno in Clitennestra, ed il rispetto virile per la donna in Achille. Così, Socrate, non indarno amico d’Euripide, elevava, prima di Cristo, un trono alla immortalità dell’anima, e ad Euripide inspirava il libero pensiero e quell’amore degli umili che fa così bella nell’Elettra sua la figura dell’Agricoltore.
Or qual voce saprà dare a questa Elettra nova lo Strauss? Quella di Salomè, che pur le si addice, negli atti, negli accenti del sadismo sanguinario, non basterà. Ella è più alta, più atroce, più solenne. Elettra è grande! – dice Oreste. E se difetto è in questa figura, tragica fra tutte nel tempo, è quel che Oreste rileva, dicendole nella mirabile versione di Ottone Schanzer il quale, attraverso il poeta tedesco, ha saputo affrontare i greci con la breviloquenza di Niccolini:
Mentr’è di sangue e d’odio pregno il tuo.
Ella deve, comunque, svenire diversamente da Salomè nella frenesia della isteria suprema, e diversamente da Salomè danzare la danza mortale, e diversamente cadere nello spasimo del finale trionfo. Or, saprà riuscirvi con Strauss, come ha saputo, e ancor sa, vivere Ifigenia con Cristoforo Gluck?
Già i siciliani, innamorati d’Euripide, liberavano i prigionieri greci che sapevan loro cantare i canti d’Elettra; al canto d’Elettra nova s’innamorino – auguro – gl’italiani tutti, che sono ancora, non solo innamorati di musica, ma capaci di musicale intelligenza. Epperò, musica sia diversa da quella che Pitagora indicava ai discepoli suoi, propizia ai placidi sonni.
Roma, dicembre 1908.
* | Euripide – Ifigenia in Aulide. [Originalanmerkung]. |